Cefalunews,
17 novembre 2016
La storia del Carnevale di Palermo non finisce mai di sorprenderci, non solamente per la sua articolata e variegata manifestazione, un tempo presente e puntuale nella città capoluogo, ma anche per l’intrinseca allegoria che ogni maschera - personaggio, che partecipava alla kermesse otto-novecentesca racchiudeva in sé.
La festa
carnascialesca, nota sin dall’epoca vicereale, era tanto importante per le
istituzioni cittadine di allora che il Viceré di Sicilia, Don Pedro
Téllez-Girón y Velasco Guzmán y Tovar, III duca di Ossuna, ordinasse nei giorni
prestabiliti, che tutti i partecipanti indossassero la maschera, imponendo pene
ai trasgressori.
Erano note a quel tempo le maschere di “Mastro di Campo” e “Pulcinella”, quest’ultimo costume importato dal Regno di Napoli.
Le sfilate erano coronate da caratteristici e coreografici
intrattenimenti: il “ballo dei pidocchiosi”, il “duello dei gobbi”, e la
“tubbiana”. Nella prima metà del XIX secolo,
all’arcinota festa popolare, che culminava con la passerella delle carrozzate,
fu anche partecipe un ospite illustre, Leopoldo di Borbone, fratello di
Ferdinando II re delle Due Sicilie. In quel periodo facevano bella mostra di sé
anche altri costumi carnascialeschi: l’Oca, il “Barone di Carnevale”, “mamma
Cucchiara”, “l’ammucca baddottuli”, il “dottore”, lo “zanni”, il “barone”, la
“morte”, la “vecchia”, lo “spagnuolo”, il “turco”, “l’inglese”, finanche un
costume caratteristico, la “Maschera dello Scalittaru”.
Un altro fantoccio, il
“Nannu”, rappresentava il Carnevale in persona. Il vecchio dalla faccia
rubiconda era accompagnato dalla sua sposa, la magrissima e vecchissima
“Nanna”. Questi due vegliardi, insieme con altri personaggi carnascialeschi,
furono tanto decantati dall’etno-antropologo Giuseppe Pitrè, nel suo “Usi e costumi,
credenze e pregiudizi del popolo siciliano”. Ciò nonostante, in questa mia
ricerca, mi piace segnalare una caratteristica peculiare della figura della
“Nanna”. Tale particolarità, peraltro inconsueta, è certamente degna di
attenzione perché costituisce per i Carnevali di Sicilia, un altro tassello da
aggiungere alla storia dell’etnoantropologia.
Nel capitolo “carnevale
siciliano” della sua opera “Feste tradizionali”, il giornalista, scrittore e
critico d’arte, Arturo Lancellotti (1877-1968), si fa una disamina
relativamente a questa festa, fornendo notizie di prima mano sulla kermesse
palermitana agli inizi del XIX secolo. E’ doveroso ricordare che il Lancellotti
fu brillante corrispondente negli anni Trenta del XX secolo di numerose testate
giornalistiche (Gazzetta del Mezzogiorno, Giornale di Sicilia e Corriere
d’Italia). Lo studioso, ci fornisce un dettaglio preziosissimo: durante le
annuali sfilate, non di rado la “Nanna” si mostrava in pubblico “gravida, con
una pancia di volume mai visto”. Pertanto, questa notizia del Lancellotti sulla
“Nanna” “moglie, pregna” del “Nannu” viene a rafforzare ciò che già Giuseppe
Pitrè, riportava nel suo “Usi e costumi”.
Il Pitré, infatti,
associava alla figura della “Nanna” la presenza di un ulteriore personaggio carnevalesco,
un infante che la donna recava in braccio. Alla luce di ciò, potremmo ravvisare
nella figura della “Nanna” - gravida, un remoto legame con gli antichi culti
pagani legati alla fertilità. Inoltre, ci sembra opportuno inserire a
coronamento dell’articolo, la foto del carro allegorico palermitano, che il
Lancellotti definisce “automobile”, risalente al lontano 1906. L’immagine in
oggetto, è tratta dalla precitata meritevole opera del Lancellotti. Il carro
carnascialesco immortalato aveva l’emblematico titolo: “La Pace”, quest’ultima,
evidentemente, a quell’epoca già traballante in Europa, a causa della corsa
alla colonizzazione che portò a ben due crisi internazionali: le cosiddette
“crisi marocchine”; determinandone una serie di contrapposte alleanze, che
anticiparono gli schieramenti degli Stati nella Prima Guerra Mondiale.
Infine, dato l’esaustivo
argomento trattato da Arturo Lancellotti riguardo al Carnevale di Sicilia, in
particolar modo quello del nostro capoluogo, mi è sembrato appropriato che i
lettori conoscano anch’essi ciò che Palermo fu capace di mostrare nel suo
Carnevale di “una volta”, e per viva voce dello stesso autore. Appunto per
questo, ho pensato di far conoscere quanto scritto dal Lancellotti, ed edito
nel 1951, presentandolo con immenso piacere ai miei “cinque” lettori. Il testo
del Lancillotti verrà suddiviso in più puntate che saranno trattate in più
articoli e che verranno pubblicati su questa testata on-line.
«Anche in Sicilia, come dovunque, il carnevale se n’è andato. Dove sono
più quelle comitive di maschere che, fino a trent’anni fa, potevano ancora
incontrarsi per le vie di Palermo, lungo il vecchio Cassaro e i Quattro Canti?
Erano Pulcinelli col “colascione” e il Mastro di Campo, erano colombine che
divertivano per ore ed ore protagonisti e spettatori. E per le strade si poteva
assistere al “ballo dei pidocchiosi” o al “duello dei gobbi”, alla “tubbiana”,
allo morte del “Nannu e della Nanna”. Allora il Vicerè indiceva giostre nelle
quali la nobiltà offriva al popolo meravigliosi spettacoli. Tanto si teneva a
questo periodo di festa che una volta un Vicerè, il duca d’Ossuna ordinò, nei
giorni designati, la maschera per tutti, comminando pene ai contravventori. E
per primo diede l’esempio, andando mascherato per Via Cassaro, con altri
signori, in mezzo al popolo.
In
tempi più vicini, il principe Leopoldo, fratello di re Ferdinando II, prendeva
parte vivissima alle carrozzate; e tirava e riceveva confetti e confettacci
democraticamente.
Fra
le maschere più comuni c’erano l’oca e il Pulcinella. L’oca era diffusissima:
se ne incontravano a Palermo intere comitive, candide e gracidanti. Bastavano,
infatti, per il travestimento, due lenzuola e due cannucce. Anche il
Pulcinella, importato da Napoli, era popolare come l’oca per lo stesso motivo
della grande facilità di rappresentarlo mediante una mezza maschera nera e una
camicia da notte.
I
“pulcinelli” andavano a gruppi di tre o quattro, col colascione; ma, più
pratici delle altre maschere, giravano per le botteghe cantando qualche
strofetta. Essa, se invece che a un bottegaio si rivolgeva a una bottegaia, era
galante. Raccoglievano, così, denari o doni, di commestibili. Questi Pulcinelli
si mostravano inesauribili nel cantare le lodi delle persone da cui volevano
qualche regalo. Benedetto Rubino ci riferisce più d’uno dei loro complimenti
rimati, detti innanzi alle bettole, alle macellerie e alle altre botteghe. Uno
di essi, munito di colascione, strumento musicale accordato in diapente, si
accompagnava col suonare di “putipù” e con quello di cembalo. La triade era
formata, ed allora il primo pulcinella, rivolto al pastaio diceva:
Principaleddu miu, di lu me cori
Apposta vinni cu stu calaciuni
Pr'assaggiari ssi vostri maccarruni
E
tutti e tre, in ringraziamento, dopo aver ottenuto un po’ di pasta:
Principaleddu, miu, chinu d'amuri
Ti vogghiu beni assai particulari,
Eu
su' lu servu e tu si lu patruni;
Si tu cumanni mi vulissi dari,
Su
prontu di sirviriti a tutt’uri,
Ammazzaratu
mi jttassi a mari.
Seguivano altri stornelli indirizzati alla cantiniera:
I.
Pulcinella
La
vogghiu beni assai la incantinera
Misura
in modu ca mi fa la scuma,
E ogni quartucciu m'arrubba du'rana.
II. Pulcinella
Ciuri di linu!
Na turturedda cun l'occhiu baggianu
Ti mancanu l'aluzzi 'tra lu schinu.
III. Pulcinella
Ciuri di Linu!
Ca vucca asciutta lu' parrari è vanu;
Sintemu comu tratta u vostru vinu.
Quando
si erano bagnati i gorgozzuli, ringraziavano ancora una volta e continuavano il
cammino, presentandosi successivamente al macellaio, alla fruttivendola, al
salsamentario, ecc., finché, sopraggiunta la sera, si congedavano con questi
versi:
Scura
la sira,
E
sbulazza la taddarita amara,
La gaddinedda a giuccu si ritira.
Questi
stornelli, o meglio “ciuri”, dei quali il Pitrè fa una categoria speciale
(canzuni di carnalivari), nella forma in cui son recitati, con l’intervento di
tre pulcinelli che stabiliscono tra l’uno e l’altro una relazione,
rappresentano un tentativo di farsa «forma che s’accosta alla drammatica».
Il
“barone di carnevale” dovette nascere nell’ultimo secolo, quando, cioè, la
parrucca bianca, la giamberga e le calze di seta erano passate di moda: ed è
probabile che il popolino ne abbia fatto un travestimento carnevalesco per
dileggio. Il “barone” era l’eroe di una farsetta o mimo carnevalesco, del quale
i personaggi erano due “baroni gobbi” e una dama – naturalmente rappresentata
da un giovane vestito da donna – I due baroni si contendevano la dama a suon di
legnate sulle loro gobbe, ballando al ritmo di un grosso tamburo. Questo ballo,
che si chiamava “l’abballu d’i pirucchiusi e d’i jimmuruti”, nell’ultima forma
settecentesca (da ciò gli attori si dicevano baruni) doveva discendere da latri
più antichi. Il Villabianca, infatti, lo ricorda col nome di “duello dei
Lazzari”, ai suoi tempi travestiti alla spagnola.
«Io
giovinetto – dice Maurus – conobbi l’ultimo epigono di tali balli, per
antonomasia chiamato ʼu baruni;
e forse il nome di “Cortile dei tre baroni”
che ha un chiassuolo di Palermo deriva dalla dimora fattavi dai più celebri
attori della danza». La mascherata, della quale non si sa l’origine né
l’etimologia del nome, e la “tubbiana”. La parola è ancor viva quando si vuole
indicare una signora vestita in modo chiassoso: “Pari na tubbiana”. Da ciò
potrebbe dedursi che “tubbiana” non fosse la comitiva, ma il personaggio
principale di essa. Questa comitiva non aveva limite numerico ma ne facevano
parte integrante alcune maschere tipiche, come la “mamma Cucchiara”, armata di
mestolo, “l’ammucca baddottuli”, il “dottore”, lo “zanni”, il “barone”, la “morte”,
la “vecchia”, lo “spagnuolo”, il “turco”, “l’inglese”.
La
maschera del “Mastro di Campo”, poi, rossa, aveva il labbro inferiore cascante.
Mastro di campo era anticamente un alto grado dell’esercito, equivalente a
colonnello o generale di brigata. La maschera che prendeva questo nome si
arrampicava sopra una scala, al rullo di un tamburo, donde il vecchi adagio
“mastru di campu e tammurinaru”. Negli ultimi tempi la mascherata pare si
riducesse a questi due personaggi; ma forse anticamente era più numerosa. Essa
rappresentava il vano assalto dato da Bernardo Cabrera allo Steri per
impadronirsi della regina Bianca. Nella tradizione popolare il conte di Modica
era passato appunto con quel volto acceso di brama e il labbro di caprone.
Una
volta la rappresentazione più completa si chiamava il “giuoco del Castello. Si
costruiva realmente un castello di legno dipinto, sul quale stava una regina o
un re. Ma i combattenti, immedesimati della loro parte, se le davano sul serio.
Per questo, e per l’alto suo costo, il castello fu smesso.
A
tali mascherate, quasi ufficiali e di prammatica, se accompagnavano altre più
umili e popolari che non avevano nomi derivanti da fatti storici, nomi
destinati a tramandarsi di generazione in generazione ed a diventar luoghi
comuni nei discorsi quotidiani. Caratteristiche erano le maschere dei monaci.
Si trattava di omaccioni barbuti che camminavano con certi strani libri di
devozione nelle mani e certe bisacce piene di agrumi e ortaggi. « Se tu sei
amico – narra un cronista del tempo – appena ti scorgono aprono il libro e ti
danno la santa benedizione; quindi ti regalano un mandarino o un finocchio, o
qualche altra cibaria».
«Può
darsi che, invece di offrirti cose mangerecce, dopo la benedizione, a un
tratto, ti piantino in viso l’orifizio di una canna vuota che loro serve di
bordone e ti accechino con un buffo di crusca negli occhi.
Carnalivari, carnalivari
ti li manciasti li maccarruna
senza agghiu, senza sali
figghiu miu, carnalivari.
«In
mezzo a queste maschere ve ne hanno alcune provviste di “scaletta”, uno
strumento curioso che occorre descrivere. La “scaletta” è un ordigno combinato
con asticciole di legno, che si allunga e si accorcia. Con essa le maschere
possono procurarsi il piacere di porgere una cartocciata di confetti alle
ragazze dei primo piani della case» (1)
Oggi è caratteristica, nelle città dell’interno dell’isola,la cavalcata costituita da una lunga fila di contadini a cavallo, vestiti nelle fogge più strane e guidati spesso da una specie di cantastorie popolare. Molto pittoresca è pure la “Moresca siciliana”, una sorta di ballo mascherato, oramai quasi scomparso, che ricorda le guerre fra maomettani e cristiani combattute nel medio Evo. Principali maschere del carnevale siciliano sono il barone, il dottore, il negromante, la spagnuola, e una specie di pantalone dal vestito carico di sonagli.
Nell’antico carnevale siciliano, come in quello napoletano, milanese e genovese, persisteva la deplorevole usanza di tirare in faccia al prossimo aranci ed uova, e di gettare sui passanti polvere di gesso e acqua fetida. In sicilia, dove tali giuochi durarono più a lungo, si conserva ancora un bando del I° febbraio 1499, col quale il Capitano Giustiziere di Palermo vieta che «alcuna persona, così cittadina come forestiera, presunta giocare a “carnalivari” con arangi e acqua o altro modo, sotto pena di onza una da applicarsi alle maramme della città». Un altro bando, in data 20 gennaio 1518, proibisce che si giuochi a “carnalivari” «tanto da grandi quanto da ragazzi, ad aranzi, a caniglia, o ad altro giuoco, eccetto le donne dalle finestre con acqua pulita».
(1) Questa scaletta,
come abbiamo visto parlando del carnevale romano, la si trova nelle feste
carnevalesche d’ogni regione d’Italia.
Bibliografia e sitografia:
Arturo
Lancellotti, “Feste tradizionali”, Società Editrice Libraria,
1951.
Giuseppe
Longo 2016, “Il Carnevale di Termini Imerese un’antica
eredità venuta da Palermo? Cefalunews, 6 Novembre.
Foto di copertina: Carnevale di Palermo, tratta da “Feste tradizionali”, 1951.
Giuseppe Longo
Nessun commento:
Posta un commento