Cefalunews, 22 giugno 2016
Il Carnevale di Palermo, manifestazione un tempo in auge nel Regno di Sicilia, vanta un invidiabile primato, poiché è documentato sin dal XVI secolo. Infatti, abbiamo notizie dei festeggiamenti che si svolgevano negli anni 1544 e 1549, riportate negli atti del Senato palermitano, in riferimento al divieto delle maschere utilizzate nel periodo carnascialesco (1).
Nel
secolo successivo, sotto il viceregno di Pietro Teller de Giron duca di Ossuna,
nella brillante e festaiola Palermo, e contemporaneamente, anche nel Regno di
Napoli, durante le feste di Carnevale, le due città erano sede di vere e
proprie giostre (2). Dal 19 gennaio
al 17 febbraio 1648, sempre nella “Capitale” siciliana, venne celebrato il
Carnevale con sfilate di carri, spettacoli in maschere, cavalcate e cuccagne.
Ma ritornando ai più
recenti secoli, XVIII, XIX e XX, facendoci guidare dall’erudito palermitano
Francesco Maria Emanuele e Gaetani, marchese di Villabianca,
dall’etno-antropologo Giuseppe Pitrè, e da Vittorio Gleijeses (3) possiamo attestare che nella
Palermo di quei tempi anche il popolo assisteva agli spettacoli di Pulcinella,
maschera importata da Napoli che si incontrava con un altro personaggio in
costume, “Mastro di Campo”, ambedue, intrattenevano gli astanti suonando uno
strumento musicale, il “colascione”.
Quest’ultimo era un tipo
di liuto a manico lungo, popolarmente usato nei secoli XVI e XVII,
principalmente nell’Italia meridionale. L’incontro tra Pulcinella e “Mastro di
Campo” era una sorta di pantomima chiamata “Giuoco del Castello” o “L’Atto di
Castello”, da cui deriva l’attuale festa popolare che, da oltre due secoli, si
svolge a Mezzojuso oggi in provincia di Palermo.
Ciò nonostante,
nell’articolato repertorio folcloristico siciliano venivano ad aggiungersi
altre rappresentazioni: il “ballo dei pidocchiosi” (l’abballu d’i pirucchiusi),
il “ballo dei pidocchiosi e dei gobbi” (l’abballu d’i pirucchiusi e d’i
jimmuruti), il “duello dei Lazzari mascherati alla spagnola”, la “tubbiana”, il
“duello dei gobbi”, e la “Morte di Nanna e de lu Nannu”.
Nella seconda metà del XIX
sec. questi due simpatici vecchietti apparivano protagonisti assoluti del
carnevale palermitano come documenta il testo della locandina che annunciava
l’inizio del programma a partire dal 2 febbraio sino al 5 marzo 1878, a cura
della “Società del Carnevale” che gestiva la manifestazione (4).
Delle feste di Carnevale
che si svolgevano a Palermo e in particolar modo delle loro intrinseche
peculiarità, ho avuto modo di parlarne con Christian Pancaro (5) un giovane perspicace e,
senz’altro, promettente studioso del folklore siciliano.
Pancaro ci ha autorizzato
a rendere note le sue riflessioni riguardo alle manifestazioni carnascialesche
che un tempo si celebravano a Palermo, eccone qui di seguito il testo che, per
comodità dei lettori, è racchiuso in quattro punti.
IL CARNEVALE DI C’ERA UNA VOLTA A PALERMO PARTE PRIMA - “A Trasuta du Nannu e a Nanna”
«Oggi nulla più rimane
delle manifestazioni esterne del Carnevale qui a Palermo e pensare che fino
alla Seconda guerra mondiale esso si celebrava sontuosamente in città con
cerimonie, mascherate, veglioni, lotterie, sfilate di carri allegorici dette
“Carrozzate” e finale rogo del simbolo per eccellenza del Carnevale ossia “U
Nannu”.Tutte queste manifestazione erano organizzate da un apposito comitato la
“Società del Carnevale” che annualmente pubblicava il programma; questo
comitato era sorto nella seconda metà dell’Ottocento per riordinare le varie
manifestazioni che, dopo l’Unità d’Italia, avevano avuto un lento declino. Il
programma si apriva parecchie settimane prima dei giorni fatidici del Carnevale
ossia la terza o la quarta domenica prima e la cerimonia d’inizio era la
“Trasuta du Nannu e da Nanna” che su un enorme cocchio entravano da Porta
Felice e attraversavano il Cassaro e la Strada nuova fra due ali di folla
festante.
Queste maschere
partecipavano a tutti i veglioni e le iniziative promosse dal comitato ed è
molto probabile che la stessa tradizione ancora viva a Termini Imerese sia
stata importata da Palermo ed è palese, come si può ben vedere dalla foto, la
somiglianza con le maschere termitane che risalgono allo stesso periodo di
quelle palermitane. Dalla “Trasuta” del Nannu e della relativa consorte “Nanna”
– introduzione nuova e per nulla attinente alla tradizione come lamentava sia
Pitrè che Enrico Onufrio – si entrava nel vivo del Carnevale e la città si
colorava di “Pittiddi” – coriandoli – e stelle filanti di uomini, donne e
bambini in costume mascherato che si divertivano a fare scherzi ai passanti
come il celebre scherzo, operato soprattutto dai ragazzini, di appendere una
pinza ad un filo e pescare il cappello ai passanti scherzo che, il più delle
volte, finiva in liti con relativi biasimi dei genitori rivolti ai figli. Sul
rogo e la simbologia del Nannu, sulle “Carrozzate” e mascherate tipiche ci
occuperemo in altri post che saranno pubblicati in questi giorni».
IL
CARNEVALE DI UNA VOLTA A PALERMO IIa PARTE - “Spettacoli, divertimenti, scherzi
e balli in maschera”
«E chi ve lo dice che hai
tempi ci si divertiva meno di ora, anzi forse per certi versi, certe feste come
il Carnevale era il vero momento di esplosione del divertimento. Sentiamo cosa
ci dice il Pitrè sul Carnevale nel periodo barocco nella nostra Palermo: “[…]
passatempo graditissimo era pur quello di buttare qualche cosa addosso alle
persone, massimamente nelle vie principali della città, nel Cassero
specialmente, e, dal XVII secolo in qua, nella Via Macqueda […] Era questo un
gioco molto antico nel Quattrocento, comunissimo nel Cinquecento, nel Seicento
e forse anche dopo. Uomini e donne, adulti e fanciulli ci si divertivano
maledettamente, facendo a lanciarsi cruscherella (canigghia), polvere bianca,
che voleva essere polvere di gesso (prunigghia), ed era quasi sempre calce
polverizzata, ed acqua”. (Pitré, Usi e costumi). Altri divertimenti erano le
corse sia di cavalli berberi che anche di uomini – sopratutto ebrei – e come
attesta il diario di Paruta e Palmerino che il 2 febbraio del 1578 (…còrsiro li
bagasci [prostitute]; e il premio fu una faldetta [gonna] con lo busto di raso
arancino). Ma vi si svolgevano anche commedie teatrali che spesso, perché
troppo licenziose, destavano scandalo non solo alle autorità ecclesiastiche ma,
anche quelle civili, come quella del 10 febbraio 1678 in cui, il Viceré
Marcantonio Colonna e la consorte Donna Felice Orsini ne rimase tanto
scandalizzato da definirla “Disonesta…” esiliando dalla Città la compagnia
teatrale.
Ma anche gli ecclesiastici
– e non scandalizzatevi – partecipavano a queste farse e commedie provvedendo
però a seguirla con riti di riparazione come ci racconta il diario del Paruta:
“6 febbraro 1663 il Vicerè D’Ossuna fece recitare una comedia spagnuola innanzi
la porta di N. Signora di Piedigrotta, presente il sig. Cardinale ed altri
signori. E la mattina fece dire molte messe cantate innanzi detta Madonna”. E
poi il ballo mascherato che si svolgeva durante tutto il periodo carnevalesco
partendo dall’indomani dell’Epifania e i luoghi designati a questi balli e
veglioni erano i teatri – si svolsero fino all’ultima guerra – specialmente il
Teatro Santa Cecilia alla Fieravecchia e il Santa Caterina poi detto Real
Teatro V. Bellini (nella foto) e ai tempi in cui era organizzato dal comitato
“Società del Carnevale” pure al Politeama.
Ma questi veglioni in
maschera nei teatri erano riservati alla nobiltà e all’alta borghesia e il
popolo partecipava come spettatore contentandosi di ballare o nelle case o per
strada accodandosi a delle orchestrine itineranti tra cui famosissima a Palermo
– ma anche in altre città per es. Messina e Catania – era la “Tubbiana”*. “La
Tubbiana o Tubbajana” è bensì un suono da ballo carnevalesco, ma è anche preso
per l’insieme di una mascherata, dove i più strani e diversi personaggi ballano
disordinatamente, saltano, sgambettano, folleggiano. L’orchestra è ambulante:
un grandissimo tamburo, rimasto in Palermo solo pel Carnevale, ma in pieno
dominio in quasi tutta l’isola per i bandi municipali, le gridate più celebri
di nuovi comestibili, o per le feste de’ santi; un piffero (friscalettu) ed un
paio o due di castagnette (scattagnetti). Questa orchestra, stata pagata “p’
accaparrata” dalle singole maschere, seguita da una folla immensa di monelli e
di curiosi, tra’ quali si distingue il siminzaru, il calamilaru, il venditore
di vozzi**, il venditore di zuccaru – (bomboloni) – va in giro per la tale o
tal’altra strada, e sonando chiama a sè la maschera; quando le maschere son
tutte raccolte […] la mascherata è compiuta e va pei luoghi precedentemente
stabiliti tra maschere e sonatori,ma per lo più pe’ posti ove abita la famiglia
o la promessa sposa del mascherato”. (G. Pitrè, Usi e Costumi). E questi erano
i passatempi del Carnevale di una volta…per le “carrozzate” e le “Maschere
tipiche” alla prossima puntata….»
*Tubiana s.f., “nome di
una mascherata plebea composta di molte persone variamente vestite che ballano
a suono di tamburo senza bordone, che riesce basso, ed è simile alle sillabe tu
bi, tu bi, donde il nome” (Mortillaro, Nuovo Dizion. sicil.ital.”
** I “vozzi” erano le gole
delle galline che venivano lavate con acqua e sale, poi asciugate e infine
gonfiate a mo’ di palloncino e si ragazzini si divertivano a giocarci e a farli
scoppiare vicino a qualche persona.
IL
CARNEVALE DI UNA VOLTA A PALERMO IIIa PARTE - “Le carrozzate e le maschere”
«Tra i momenti più attesi
del carnevale di Palermo erano le “Carrozzate” sul Cassaro – Corso Vittorio
Emanuele – che in origine consistevano in sfilate di carrozze padronali
riccamente addobbate, i cui proprietari, mascherati, si divertivano a lanciare
“Pittiddi” – coriandoli – e confetti al popolo; successivamente si
trasformarono in dei allegorici in carta pesta, trainati da cavalli, che
rappresentavano diverse scene di vita o caricature come nell’immagine,
risalente agli anni ‘30, il carro raffigura il paese degli zulù, con una
giraffa dalla testa mobile oppure, come ci ricorda il La Duca, una grande
carrozza su cui troneggiava una gigantesca riproduzione della statua bronzea di
Carlo V in piazza Bologna, ma in questo caso l’Imperatore, anziché giurare
fedeltà ai privilegi del Regno, con il braccio teso si divertiva invece a
giocare a yo-yo, un noto trastullo in voga in quegli anni fra grandi e piccini.
Le “Carrozzate” avevano
luogo, di solito, le domeniche, il Giovedì e il Martedì Grasso e al termine
veniva premiata la più bella e originale. Ma veniamo ora alle maschere tipiche
del Carnevale. Ve n’erano tantissime e tra le principali c’era:
“l’ammucca-baddotuli” che aveva una maschera con la bocca aperta dalla quale
usciva, mediante una molla, una pallina; la “Vecchia”; “U Baruni”; “l’ursu”;
“l’oca”; “Mastru di campu”; “lu mortu porta lu vivu” etc… Caratteristica era la
figura dello “scalittaru” che era similare ai Giardinieri” di Salemi e Ribera.
Scrive su di essi il Pitrè: “…diverte il pubblico regalando alle donne
affacciate alle finestre ed ai balconi fiori, lomie (sorta di agrume),
mandarini, piccoli cartocci di confetti, che lega ad una solida e lunga
scaletta (a forma di diverse X incrociate), la quale egli, dai capi che tiene
in mano, allunga fino ai primi ed ai secondi piani delle case e poi subito
ritira a sé confondendosi tra la folla.
Dove egli non giunge con
la sua scaletta, ecco lì i suoi amici reggergli una scala e farvelo salire.”
(Usi e costumi). Ma vi erano anche delle simpatiche mascherate itineranti come
quella caratteristica, che si faceva nel Borgo Santa Lucia di Palermo e di cui
fu testimone lo stesso Giuseppe Pitrè, che rappresentava una barca di pescatori
la quale, veniva condotta da marinai mascherati che si mettevano all’interno e
la trascinavano per le vie del borgo soffermandosi davanti le botteghe dei
macellai, pastai, panettieri etc… dove con l’ausilio di una canna, pescavano
qualche prodotto di questi venditori ossia: un rocchio di salsiccia, dei
maccheroni, una pagnotta etc…
Ma la più celebre di tutti
era quella dei “Pulcinella” che, giravano per la città nelle ore pomeridiane,
accompagnati da alcuni suonatori mascherati che suonava il colascione o
“Puti-puti”, il cembalo e le nacchere, ballavano e cantavano davanti le diverse
“Putie” – botteghe – di generi alimentari per chiedere dei commestibili e i
versi cantati suonavano press’a poco così: “Principaleddu miu di lu mè cori,
Apposta vinni cu stu culasciuni, Pr’assaggiari ssi vistri maccarruni” e
continuavano più o meno davanti alle botteghe del tavernaio, salumiere,
macellaio, fruttivendolo, pasticciere; al termine, dopo questo giro di questua
alimentare, andavano in certi magazzini per riempire “il famelico ventre” di
tutta la roba che avevano raccolto coronando il tutto con l’immancabile
onorificenza a Bacco mediante abbondanti libazioni».
L’ANTICO CARNEVALE DI PALERMO: IV ED ULTIMA PARTE - “U Nannu”
«Una delle tradizioni più caratteristiche del Carnevale era – ed ancora
è – il rogo del fantoccio raffigurante “U Nannu” ossia la personificazione del
Carnevale. Ma lasciamo la parola al Pitrè: “Il Nannu o Nannu di Carnalivari è
la personificazione del Carnevale, la maschera principale, massima, l’oggetto
di tutte le gioie, di tutti i dolori, de’ finti piagnistei, del pazzo furore di
quanti sono spensierati e capi scarichi. Trovar la sua fede di battesimo è
tanto difficile quanto il trovar l’origine d’un uso obliterato; ma senza
dubbio, trasformato e mistificato com’è, egli discende in linea retta da un
personaggio mitico della remota antichità di Grecia e di Roma.
La
sua storia è lunga, ma la sua vita è così breve che si compie dalla Epifania
all’ultimo giorno di Carnevale. Ordinariamente lo si immagina e rappresenta
come un vecchio fantoccio di cenci, goffo ed allegro; vestito dal capo ai piedi
con berretto, collare e cravattone, soprabito, panciotto, brache, scarpe. Lo si
adagia ad una seggiola con le mani in croce sul ventre, innanzi le case, ad un
balcone, ad una finestra, appoggiato ad una ringhiera, affacciato ad una
loggia; ovvero lo si mena attorno. Più comunemente è una maschera vivente, che
sur un carro, sur un asino, una scala, una sedia, va in giro accompagnato e
seguito dal popolino, che sbraita, urla fischia prendendosi a gomitate.” (Usi e
Costumi).
Spesse
volte si affiancava la “Nanna” moglie del “Nannu” ma questo fatto e sorto un
po’ più tardi tanto che lo stesso Pitrè lo descrive come uso isolato e non
tradizionale. Fino a qualche anno fa in molti quartiere popolari tra cui
l’Albergheria – come ha documentato Ignazio E. Buttitta - il Borgo e la
Vucciria - era facile incontrare, negli ultimi due giorni del Carnevale,
davanti agli usci delle case, o nelle ringhiere dei balconi e in mezzo a
qualche piazzetta, dei fantocci imbottiti posti seduti su sedie o sdraiati;
spesse volte si rappresenta il “Nannu” seduto davanti ad un tavolino e
dall’altro lato il “Notaio” nell’atto di scrivere le ultime volontà.
Il
“Testamento del Nannu” uso purtroppo perso veniva composto o improvvisato dai
poeti di strada o da semplice gente con qualche estro letterario, e in versi
recitava le volontà del defunto spesso facendo allusioni agli organi sessuali o
a fatti di satira politica o di “curtigghiu” - pettegolezzo - di quartiere. In
altri casi si usava condurre in giro questo fantoccio su un carretto o, come
ricordava una mia prozia ottuagenaria, in posizione supina su di un organetto.
Il Martedì grasso, ultimo giorno di Carnevale, davanti a questi simulacri molte
donne avvinazzate e anche bambini facevano dei lamenti funebri, in maniera
parodistica del tipo: “Murììììuu u Nannuuu… Curnuti sulaaa mi lassasti… senza
sasizza sugnuuu…!!!” e via di questo passo; a sera si impiccava ad una fune e
gli si dava fuoco tra la gioia di grandi e piccini che ballavano a suon di
musica e mangiavano salsiccia, mentre il “Nannu” si consumava tra l’esplosione
dei petardi.
Ma
tutto questo doveva accadere dopo “un’ora di notte” - le ore 20.00 della sera -
quando la “guza” ossia la campana della Cattedrale suonava dei rintocchi
lugubri sottolineando l’inizio delle astinenze e dei digiuni quaresimali. Anche
il famoso “Nannu” promosso dal Comitato “Società del Carnevale” che qualche settimana
prima era entrato, con la sua consorte, trionfalmente in città sopra un superbo
cocchio, doveva essere sacrificato tra il fuoco purificatore e dopo che per
tutto il Martedì sera veniva condotto su e giù per il Cassaro - Corso Vittorio
Emanuele - verso Mezzanotte ci si fermava ai Quattro Canti dove, dopo la
lettura del Testamento, veniva dato fuoco ed essendo la grossa maschera in
cartapesta, una vera e propria bomba, quasi sul finale, esplodeva lanciando una
pioggia di stelle filanti e faville… da ciò si capiva che il Carnevale era
davvero finito e l’indomani era Quaresima vigilia di altri riti e passatempi
sacri…».
Note:
(1)
Vedi Villabianca, Diarij, t. 13 pp. 78-79. In G. Pitré, “Usi e costumi credenze
e pregiudizi del popolo siciliano” Volume I.
(2)
“Le giostre organizzate dal duca di Ossuna, durante il Carnevale superavano per
importanza e magnificenza anche quelle di Roma e di Firenze”. Vittorio
Gleijeses, “Piccola storia del Carnevale” Alberto Marotta Editore, 1971.
(3)
Vittorio Gleijeses (1919-2009) storico e giornalista pubblicista, è stato uno
studioso di storia napoletana, letteratura e arte non contemporanea e di
numerose pubblicazioni.
(4)
Giuseppe Longo 2016, “Le Società carnascialesche di Palermo e di Termini
Imerese”, Cefalunews, 2 febbraio.
(5)
Christian Pancaro, nasce a Palermo il 21 maggio 1991. Dopo aver compiuto gli
studi classici, frequenta l’Accademia di Arte Drammatica del Teatro Crystal
lavorando come attore per diverse compagnie teatrali e collaborando con diversi
progetti teatrali con i ragazzi. Attualmente è studente nel corso di laurea in
Beni Culturali della Scuola delle Scienze Umane e del Patrimonio Culturale.
Precocemente si è occupato di ricerca etnografica sul campo interessandosi
soprattutto sulle feste religiose siciliane. Collabora con il giornale online
la Gazzetta Palermitana, curando la rubrica riguardante la storia e le
tradizioni di Palermo. Collabora attualmente con la Pontificia Facoltà
Teologica di Sicilia “S. Giovanni Evangelista” nella revisione del fondo La
Duca curato dal Prof. Francesco Armetta. Recentemente, relativamente alle
festività religiose della “città Felice”, ha collaborato all’opera Almanacco
Palermitano di Francesco Lo Piccolo (Priulla, 2016).
Foto
di copertina: Uno dei quattro fogli della famosa carta
geometrica di Palermo del Marchese di Villabianca, pubblicata nel 1777, con la
lunga dedica a Ferdinando III di Sicilia e altri.
Foto
a corredo dell’articolo: Carnevale di Palermo, carro dei Nanni
(anni 30’ del XX secolo). Ph. Rosario La Duca, da “La città perduta il
Carnevale nel passato” 16 febbraio 1972.
Bibliografia
e sitografia
Giuseppe
Pitrè, “Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo
siciliano, 1889
Giuseppe
Pitré, “La vita a Palermo cento e più anni fa” Pedone
Lauriel, Palermo, 1904.
Vittorio
Gleijeses, “Piccola storia del Carnevale” Alberto Marotta
Editore, 1971
Rosario
La Duca, La città perduta. Il Carnevale nel passato, Giornale
di Sicilia, 16 febbraio 1972
Giuseppe Longo 2016, “Le Società carnascialesche di Palermo e di Termini Imerese”, Cefalunews, 2 febbraio.
Giuseppe Longo
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