Cefalunews,
12 gennaio 2022
Dopo la festa
dell’Epifania (Ddoppu li Tri-Rrè) cominciava il periodo delle festività
carnascialesche (Ddoppu li Tri-Rrè, tutti olè). In realtà, secondo un antico
proverbio, l’olè iniziava il 12 gennaio. I suoni acuti delle trombe, o dei
corni, oppure delle “brogne” (1),
scandivano e annunciavano inequivocabilmente, l’avvio dei festeggiamenti che
culminavano e terminavano nel giorno di Martedì grasso.
Il grande sollazzo si
apriva con gli arcinoti quattro “Giovedì” che precedevano e precedono il
carnevale, denominati secondo l’ordine tramandatoci dall’etnologo, Giuseppe
Pitrè (1841-1916), in: “joviri di li cummari”, “joviri di li parenti”, “joviri
zuppiddu”, e “joviri lardarolu” (N.d.r. giovedì delle comari, giovedì dei
parenti, giovedì del diavolo e giovedì grasso).
In questi “Giovedì”, che
nell’antico carnevale della Contea di Modica, l’etnologo Serafino Amabile
Guastella (1819 – 1899) li riduceva solamente a tre (invertendone l’ordine, in:
“jiovi di lu zuppiddu”, “jiovi di li cummari”, e “jiovi lardaloru”), la cucina
era ed è la più doviziosa: il sugo di maiale, insaporito con la salsiccia e la
cotenna, diviene il condimento per la pasta, o meglio per i “maccarruna” (i
maccheroni) ‘nciliati (ovvero conditi con la ricotta). (2)
Tuttavia, la specialità
legata principalmente a questo fantasmagorico evento carnevalesco, è u’
cannòlu, (il cannolo), il re della pasticceria siciliana.
Scrive lo studioso di
tradizioni popolari Giuseppe Pitrè, nel volume primo, capitolo terzo dell’opera
“Usi e costumi credenze e pregiudizi del popolo siciliano”.
[…] Senza il cannòlu che
cosa è il banchetto carnevalesco se non un mangiar senza bere, un murare a
secco, lo stare al buio in una conversazione? […].
E riferendosi sempre a
questo prelibato dolce, riporta ancora nel suo “Usi e costumi credenze e
pregiudizi del popolo siciliano” i versi in vernacolo di Don Stefano
Beneficiale Melchiorre tratto da “Poesie siciliane giocose, serie, e morali”:
“Belli cannoli di Carnevale/ migliori buoi del mondo 'un ci nnè/ Sono beati i denari spesi, / Ogni cannolo è scettro d'ogni Re; /Le donne vengono nel deserto; /Il cannone è la verga di Mosè; /Chi non ci mangia, si lascia uccidere, /Chi li disprezza è un grande arrapato!”
[“Beddi cannoli di
Carnivale, /migliore boccone al mondo non c’è, /sono bene spesi i soldi, /ogni
cannolo è scettro di ogni Re;/ arrivano le donne ad abortire;/il cannolo è la
verga di Mosè;/chi non ne mangia si faccia ammazzare, /chi li disprezza è un
gran cornuto davvero!”].
Sempre il Pitrè ci riferisce che gli ultimi giorni di Carnevale, nei quattro quinti della Sicilia: Catania, Erice, Marsala, Mazzara, Menfi, Modica, Piazza Armerina, Ragusa, Sciacca e Trapani, vengono qui denominati “sdirri”, cioè ultimi.
Quindi, come
per Catania, dove l’ultimo giovedì di carnevale vien chiamato “lu Jovi di li
sdirri”, anche nel modicano, con le parole Sdirrumìnica, Sdirrilùni,
Sdirrimàrti, si designa rispettivamente l’ultima domenica, l’ultimo lunedì, o
l’ultimo martedì di carnevale. Questo vale anche per l’espressione Sdirrisìra
per indicare appunto la sera conclusiva del martedì.
Stessa cosa per i “Tri
ghiorna di lu picuraru” (i tre giorni del pecoraio), ossia gli ultimi tre
giorni di Carnevale: domenica, lunedì e martedì.
Con il Martedì grasso, il
giorno che precedeva l’inizio della Quaresima, si chiudeva e si chiude il
periodo delle feste e dei bagordi, per poi ricominciare l’anno successivo.
Detto questo, ritengo fare
cosa gradita ed utile ai miei lettori, riportare qui di seguito, quasi
integralmente, il sopraindicato Capitolo (Nomi ed usanze de’ giorni di
Carnevale), circa i quattro giovedì che precedono le feste carnascialesche,
culminanti poi con il Berlingaccio ovvero il Giovedì grasso, l’ultimo del
carnevale. Evidenzio che lo scritto del Pitrè è stato riprodotto con la stessa
ortografia.
In realtà, per rendere più
scorrevole la lettura, ne ho omesso volutamente le note. Tuttavia, per chi volesse
approfondire, è possibile consultare in rete, gratis, l’eBook, e scaricarlo se
si vuole.
Per rendere comprensibile
ai più il nostro vernacolo, mi sono avvalso del Prof. Fonso Genchi (Presidente
dell’Accademia della Lingua Siciliana), che ha curato sapientemente la
traduzione dal siciliano all’italiano. Vedesi la traduzione all’interno delle
parentesi quadre.
La descrizione del Pitrè, in merito ai quattro giovedì che precedono il carnevale, è diventato oramai un classico. Un punto di riferimento per gli storici, gli studiosi delle tradizioni popolari, i neofiti appassionati del Carnevale e dei carnevali italiani, ma, soprattutto, per gli amanti di una delle “nostre” principali tradizioni e attrazioni cittadine: il “Carnevale di Termini Imerese, considerato a buon diritto uno dei più antichi d’Italia ed erede diretto dell’antico Carnevale di Palermo”.
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[…] Ma prima di andare
avanti con le maschere, torniamo un poco indietro a vedere come cominci e
proceda il Carnevale. Ne vedremo delle curiose.
Un antico proverbio dice:
Ddoppu li Tri-Rrè, tutti ole, cioè: dopo la festa della Epifania (Tri-Rrè)
comincia il baccano del Carnevale. E così fu sempre; ma dopo lo spaventevole
tremuoto dell’11 Gennaio 1693, che distrusse mezza Sicilia, nessuno veste
maschera prima di quel giorno. L’ole comincia il 12 Gennaio.
Un tempo, come oggi, a
tutti era dato avviso dell’entrata del Carnevale col suono di trombe, o di
corni, o di conche di tritone (brogna) da giovani e da monelli. Ed era un
chiasso indiavolato, un tramestio per tutti, ma più per chi avea da fare gli
apparecchi e le pratiche necessarie per mascherarsi.
Ci voleva il permesso
della Polizia, e lo si otteneva pagando un tanto; ci voleva il costume, e lo si
accaparrava al magazzino di Settimo Cane, celebre anche oggi dentro e fuori la
provincia di Palermo.
Mascarara (fabbricanti o
venditori di maschere), fruariddara (fabbricanti di razzi) mettono, come
mettevano, in mostra le mascari [maschere] o facceri (Modica) di cartone da un
bajocco (cent. 4 di lira) l’una, i cappelli di carta, i birrittuna [berrettoni]
da Pulcinella, i birriuna (turbanti), i tricchitracchi (razzi), i botti
[botti], li vozzi, i pittiddi [coriandoli] ecc., roba tutta indispensabile al
popolino che vuol divertirsi da vero.
Si sa che il Carnevale crescit eundo, e diventa, o almeno diventava, tripudio, entusiasmo, furore, pazzia negli ultimi tre giorni.
Carnalivari tutti li festi
fa turnari [Carnevale tutte le feste fa tornare], dice il proverbio; e davvero
che un po’ di tutte le feste principali dell’anno si raccoglie in queste, che
ne sono il maximum. L’importante è d’aver quattrini da spendere: ma se pure non
se ne ha, si procurano facendo un pignu [pegno], prendendoli a ddetta [debito],
pur di sbirbarsela quanto è possibile.
I quattro giovedì che
precedono il Carnevale propriamente detto hanno ciascuno un nome proprio
allusivo alla cucina ed alla pappatoria. Il primo è Jòviri (o jovi) di li
cummari [giovedì delle comari] nel quale era di uso un desinare tra le comari
di S. Giovanni. L’uso si va perdendo, ma rimane il proverbio:
Lu
Jòviri d’ ‘i cummari [il giovedì delle comari]
Cu’ ‘un havi dinari si
‘mpigna lu fadali, [ chi non ha denari mette in pegno il grembiule]
ovvero:
Chi non ce l'ha, lo fa prestare, [chi non ce l'ha, lo fa prestare]
perché, giusta il galateo
del comparatico, d’un invito alla comare non si potrà fare a meno in questo
giorno: ed è risaputo che nessuna parentela, nessuna amicizia sta al di sopra
della parentela e dell’amicizia tra compari e comari.
Il secondo è il Jòviri dì
li parenti [ Giovedì dei parenti], forse per un desinare che faceasi tra’
congiunti: e si dice che
Lu
Jòviri d’ ‘i parenti [il giovedì dei parenti]
Cu’ ‘un havi dinari si
munna li denti, [chi non ha denari rimane a bocca asciutta]
cioè si ripulisce i denti,
non avendo nulla da spendere, e da mangiare. Jòviri zuppiddu [Giovedì zoppetto]
è il terzo, e guai a chi in esso non abbia tanto da mangiar di grasso!
Lu
Jòviri zuppiddu [Giovedì zoppetto]
Chi non camera è peggio per lui! [chi non mangia grassi, peggio per lui!]
Questo giorno del
zuppiddu, del zoppetto, è comunemente il giovedì, ma per alcuni il mercoledì, e
per molti altri anche il venerdì che precede il Berlingaccio, donde una
variante del proverbio citato:
Lu Vènnari zuppiddu [Venerdì zoppo]
Chi non ha soldi è un male per lui.
ovvero:
Chi non ha soldi, è un male per lui. [Chi non ha soldi, è un male per lui]
che pare più conforme a’
tempi in cui dovette nascere, perchè il mangiar di grasso (cammaràrisi) di
giovedì non ha nulla di strano (salvo che non voglia alludersi alla povertà,
alla impotenza di spendere per mangiare un po’ di carne); è bensì nuovo, e da
vero Carnevale, il fare uno strappo alle prescrizioni ecclesiastiche mangiando
carne in giorno di venerdì.
«Non so, e pure l’ho
ricercato sul serio, da che derivi l’appellazione di mercoledì, o giovedì, o
venerdì del zuppiddu…. Ho interrogati sul proposito molti vecchioni del mio e
dei paesi vicini; ma tutti hanno alzato le spalle, tutti hanno curvata la testa
all’indietro, energico gesto, che tradotto a parole, significherebbe: Potete
spararci, ma non ne sappiamo proprio il bel nulla!»
Così scrive il Guastella
nel suo prezioso studio sull’Antico Carnevale di Modica, che avrò più volte
occasione di citare in questo mio; e fermandosi un po’ sull’argomento rileva
che nella Contea di Modica «il giorno del zuppiddu era destinato per la
distribuzione dei vermicelli a tutta quanta la poveraglia, come il Venerdì
gnoccolaro, che tuttora. è in uso in Verona; e sembra che il nostro proverbio
si riferisca a quella distribuzione»; rileva certe cavalcate per festeggiare la
nascita di Bacco, e con esse certe cascarde calabresi, cioè balli,
probabilmente cantati; e mette avanti l’ipotesi che quel zuppiddu possa essere
un avanzo di diavolo, divenuto un essere a parte, metà mitologico, metà reale,
quasi un tipo di satiro, forse conservato anche come maschera.
Viene ultimo il Jòviri
grassu o lardaloru [giovedì grasso], o lu Jovi di li sdirri (Catania), cioè il
Berlingaccio, e
Lu
Jòviri grassu [Il giovedì grasso]
(o Quannu veni lu Jòviri
grassu) [Quando viene il giovedì grasso]
Cui nun ha dinari
s’arrùsica l’uossu, [Chi non ha denari, rode l’osso]
ed anche:
Lu Jòviri lardaloru, [Il
giovedì grasso]
Cui nun havi dinari si
‘mpigna lu fìgghiolu. [Chi non ha denari, mette in pegno il figlio]
La qualificazione di
lardaloru data al Berlingaccio parmi anteriore a quella di grassu; e, secondo
il Guastella, era ed è chiamato così «per un minestrone solito farsi il quel
giorno, e che su per giù arieggia le minestre di Genova. Il principale
ingrediente sono grossi pezzi di lardo, al quale vengon mescolati quanti più
legumi, e quante più erbe ortalizie si possano». Si ricordi che trecent’anni di
dominazione spagnuola ci lasciarono usanze, particolarmente religiose, voci,
nomi spagnuoli in buon dato.
Di jous llardér dicono i
catalani quel che i Castigliani dicono Jueves lardero, cioè giovedì lardajuolo,
per un mangiare speciale a base di lardo che si usava, e che in Catalogna dicon
tuttavia cassola. Del resto, non deve stentarsi molto a trovare in un uso
proprio del Berlingaccio la spiegazione del lardo e del grasso, dai quali esso
giorno prende nome: voglio dire quello di scannare il maiale. «L’allevare un
maiale, scrive un siracusano che rilevò quest’uso, è una provvidenza per le
famiglie che ànno modo d’allevarlo.
Si compra un piccolo
porcellino che costa un cinque o sei lire, e si manda in campagna, per potersi
sviluppare nel corpo all’aria libera e pascolando. Tre o quattro mesi prima di
scannarlo, si porta in casa, e si governa bene per ingrassarlo. Tenendolo due
anni, si ha un maiale più grosso, è vero, ma la carne non è così tenera, come è
quella di un animale di un anno.
Fatto è però, che nelle
famiglie che allevano il maiale, si sta bene per due anni; prima, col pensiero
di quello che si avrà, poi con le proviste che se ne ricavano. E sì che è vero
il nostro proverbio, il quale dice: Se vuoi stare allegro un giorno, fatti la
barba; se vuoi stare allegro un mese, maritati; se vuoi stare allegro un anno,
oh scanna il maiale. Dal maiale si ricavano lardo, strutto, salami, salsiccia
in rocchi, sanguinacci, prosciutto, ciccioli; e nulla va perduto».
L’olla podrida dev’esser
sorella del cennato minestrone. Si dice poi che in quel giorno si ‘mpigna lu
figghiolu, perché s’ha a festeggiare ad ogni costo, anche quando, per così
dire, per manco di danaro s’abbia a mettere in pegno il bimbo lattante. Un
altro proverbio chiaramontano sullo stesso giorno allude ad un uso, ignoto, al
pari del proverbio, nella Sicilia occidentale:
Giove [Il giovedì grasso]
I fratelli imitarono le sorelle: [I fratelli invitarono le sorelle]
Ora i tempi su’ canciati,
[Adesso i tempi sono cambiati]
E le sorelle invitano i fratelli [E le sorelle invitano i fratelli]
Quest’uso è un desinare
tra fratelli, sorelle, cognate, suoceri, generi, nuore, nel quale si chiarisce
un malinteso, si toglie uno screzio; questioni, litigi, odii, rancori si
annegano in un bicchier di vino e si dimenticano per sempre. E’ il convito
della concordia, il trionfo dell’amore.
Questi quattro giovedì son
tre in alcuni paesi, dove quello del zuppiddu non si conosce; però degli ultimi
tre giovedì di Carnevale il terz’ultimo è quello del giovedì di li cummari, il
penultimo di li parenti, l’ultimo grassu o lardaloru.
Gli ultimi giorni di
Carnevale in Trapani, Erice, Marsala, Mazzara, Sciacca, Menfi, Catania, Ragusa,
Modica, in quattro quinti insomma della Sicilia, compresa la siculo-lomabarda
Piazza, son chiamati: Sdirri. «Pagherei un occhio del capo, dice il valente
Guastella, per sapere la etimologia, perché confesso di non saperla». Il
protopapa greco di Messina G. Vinci la va a trovare, nientemeno, nella lingua
ebraica! il vecchio Francesco Pasqualino nel latino exterus.
Il figliuolo di lui
Michele pensa che «siccome da de retro se ne formò la voce darréri, così da
darreri dirrera, ex dirrera, sdirrera, scorciato sdirri». A la sdirrera,
infatti, significa da ultimo, alla fine; onde i versi d’un canto popolare:
Alla fine sono rimasti davanti a me.
La pala, la divigna
[ramazza] e lu tradenti [tridente];
e lu sdirri vale l’ultimo,
come nel proverbio: Senti lu primu, e parra lu sdirri [Sii il primo ad
ascoltare e l’ultimo a parlare] e nelle locuzioni A lu sdirri di lu misi, A lu
sdirri di l’annu [Alla fine del mese, Alla fine dell’anno]. Se fosse questo
luogo acconcio ad una escursione per il campo delle lingue romanze, il nostro
sdirri s’incontrerebbe coi suoi fratelli carnali dernier e derrière di Francia.
Che se nel dialetto
siculo-monferrino di Piazza gli ultimi giorni di Carnevale si chiamano ùrt’ m’
sdirri (ultimi sdirri), chi non vede in questo uno de’ soliti pleonasmi
popolari come il malatu – ‘nfirmu per malato grave, la vina-arteria per
arteria, la ‘murraggia di sangu per emorragia ecc.?Abbiamo pertanto l’antonomastico
Sdirri per Carnevale, e se in Catania l’ultimo giovedì, il Berlingaccio,
chiamasi, come s’è detto, lu Jovi di li sdirri (il giovedì di Carnevale), nel
Modicano la domenica, il lunedì ed il martedì si chiamano Sdirrumìnica,
Sdirrilùni, Sdirrimàrti, ed anche Sdirrisìra la sera del martedì.
Veri documenti di usanze
modicane sono alcuni proverbi, che verrò mano mano dichiarando:
a)
'Gli Sdirrumin
Vardati, che il poeta sbuommica
[L’ultima domenica,
guàrdati, che il poeta si sfoga]
Esso allude all’usanza
delle satire popolari, quando improvvisate da un poeta, quando prese dalla
tradizione e sempre taglienti ed aggressive. Non è parola, non frizzo, non
ingiuria che il poeta non si permetta in quella occasione agli amministratori
della cosa pubblica, a’ magnati ‘a proprietarî, a qualunque classe sociale; e
guai a chi se ne risente! Il poeta popolare è intangibile pel volgo, e può
dirla a chicchessia purchè dica la verità. Una storiella tradizionale del
territorio chiara montano dà per privilegiato da G. C. il poeta, la cui
missione è sacra sulla terra.
b) Una Sdirruminica
Fatti amica ‘a monica,
[L’ultima domenica,
fatti amica la monaca]
la monacella, che o per
conto proprio ai parenti, al confessore ordinario ecc. o per conto della
Comunità alla’Amministratore, al Procuratore, al Deputato, al Prefetto, agli
impiegati, aderenti, amici del Monastero, dovea preparare certi dolci
particolari o propri di esso, com pur troppo usasi anche oggidì. «Farsi amica
la monaca» vale cattivarsene la buona grazia, assicurarsi i dolci
carnevaleschi, dolci non comuni, né facili ad ottenersi.
c)
'U Sdirriluni
Arance con bulloni.
[L’ultimo lunedì,
arance a bizzeffe]
Le arance furono e son
sempre il frutto di cui con quasi niuna spesa un tempo, e con pochi centesimi
oggi, può farsi getto in Sicilia; e tengon luogo di bucce e di torsoli alle
maschere più goffe, più bislacche e più strane.
Ora nel lunedì di
Carnevale nella Contea di Modica usava un giuoco divertente molto, ma anche
molto brutale, detto Toccu a la papali o a la papalina, una specie di
passatella, dove però i delegati delle varie maestranze doveano dar prova di
enorme capienza ventrale, di grande tolleranza di vino, di somma agilità ed
equilibrio di corpo dietro una straordinaria bevuta, di gran forza nel
trangugiare un piatto di pasta asciutta, di speditezza di pronunzia nel
ripetere qualche scioglilingua, e via via di questo passo.
La prova, anzi le prove
erano l’una più difficile dell’altra, ed i perditori, uno alla volta, uscivano
dalla taverna scornati dagli emuli e dai giudici, e presi a torsolate e a colpi
d’arance dal pubblico curioso e parteggiante quale per uno quale per un altro
de’ campioni. Da noi, nella provincia di Palermo, si conosce il tocco alla
papale, ma non si conosce come giuoco carnevalesco, né ha la procedura e le
forme bestiali che avea nel Modicano fino a un secolo fa.
d)
'E Sdirriluni
In Rru r'ova n' 'o mio passato,
cioè pasta, per lo più
maccheroni, mescolata con le uova, cibo desideratissimo, ma inusitato, tranne
ne’ banchetti nuziali, pei campagnoli della Contea.
e)
'U Sdirrimarti
Cu’ nu nn’ha, ci runi ‘a
parti.
[L’ultimo martedì
A chi non ne ha, dagli la
parte]
Questo proverbio rivela il
principio di carità che pur non si scompagnava mai dal buon umore e
dall’allegria in mezzo al carnevale.
Le famiglie di condizione
agiata, o tali che potessero spendere qualche cosa più dell’ordinario senza
dover pensare al domani, convitando a banchetto i congiunti più cari, non
dimenticavano i poveri che non aveano da sfamarsi in quel giorno.
Ed era una gara di
beneficenza, vorrei dire incosciente, perché nata dal cuore e solo per amore
degli infelici e de’ derelitti.
Il borghese, il maestro,
le donne particolarmente, sapeano che c’era una povera vecchietta a due passi
dalla loro casa, alla quale nessuno pensava in quei giorni; che più in là c’era
una ragazza rimasta orfana di padre e di madre, la quale non avrebbe che dare
a’ fratellini tutti minori di lei di età; e borghese e maestro e donne, senza
ombra di iettanza, di nascosto, mandavano ogni ben di Dio alla vecchietta
dimenticata, agli orfanelli derelitti.
Il Guastella ha su questa
amorosa beneficenza una pagina tenerissima, ragione per noi di paragoni incresciosi
con la beneficenza immodesta, vanitosa, ributtante che oggi, un quarto d’ora
dopo fatta o anche prima di farsi, si strombazza per tutti i giornali delle
città.
f)
Natale e Pasqua con chi vuoi,
‘A Sdirrisira falla ccu li
toi;
[Natale e Pasqua con chi
vuoi,
L’ultima sera falla con i
tuoi]
quest’ultimo proverbio modicano corse e corre,
variamente ripetuto, in tutta la Sicilia. Qui si parla dell’ultima sera, ma la
forma più comune raccomanda gli ultimi o l’ultimo giorno di carnevale, che poi,
in fondo in fondo, si riduce alla sera, come vedremo:
Pasqua e Natale con chi vuoi,
Ma li Sdirri cu li toi
[Pasqua e Natale falli con chi vuoi,
Ma gli ultimi con i tuoi]
Ovvero:
Pasqua e Natale con chi vuoi
Carnalivari fallu cu li toi,
[Pasqua e Natale falli con chi vuoi,
Carnevale fallo con i tuoi]
o come in Erice:
Tutto l'anno è dove sei,
Fa' li Sdirri cu li toi.
[Tutto l’anno stai dove vuoi,
Fai gli ultimi con i tuoi]
Fra’ tre o quattro
banchetti dell’anno quello che raccoglie per un momento i membri divisi,
sparsi, lontani della famiglia in casa dei genitori, o de’ maggiori e più
autorevoli, è il banchetto di carnevale. Si tiene un invito in casa d’un amico,
d’un parente lontano, per la Pasqua, pel Natale; ma pel giorno di Carnevale non
c’è amici né parenti lontani: i maccheroni s’hanno a mangiare in famiglia
propria; né si sa o può derogare a quest’usanza anche lontani dalla casa
paterna, e quasi impossibilitati a recarvisi.
E qui cade in acconcio raccontare una novellina
abbastanza curiosa.
È da sapere che agli
ultimi tre giorni i contadini, i montanari siciliani danno l’appellativo di Tri
ghiorna di lu picuraru picuraru [i tre giorni del pecoraio]; e si racconta: A
tempo degli Ebrei, l’ultimo giorno di Carnevale cadeva di sabato.
Una volta un pecoraio con
un capretto sul collo andava a passare in casa quest’ultimo giorno; ed ecco
incontrarsi col Maestro (G. Cristo), il quale gli chiese: «Dove vai, buon
uomo?» Ed egli: «Vado a passare l’ultimo giorno in casa mia, chè il padrone mi
regalò questo capretto, e lo mangerò con la famiglia». – «Oh! Se questo è
l’ultimo giorno di carnevale, come farai tu a passarlo in famiglia?» osservò il
Maestro, a cui il pecoraio: «Non fa nulla! Me ne prenderò un altro dei giorni,
anche due, ed anche tre!» – «Ti siano concessi (rispose il maestro): e saranno
tutti per te!» Ed è per questo che gli ultimi tre giorni di carnevale si dicono
li tri ghiorna di lu picuraru.
Una variante di Caccamo, del parco ecc. dice che in uno de’ tre giorni Gesù Cristo, avvenutosi una volta in un pecoraio, gli comandò che lasciasse la campagna e se ne n’andasse al paese a divertirsi con la famiglia.
Sicchè il desinare in famiglia non è soltanto un divertimento che il nostro popolano desidera e si permette, ma anche una specie di comandamento di Dio. Così proverbio e novellina si spiegano ed illustrano a vicenda […].
Note:
(1)
(brogna: una conchiglia conica usata come tromba).
(2)
(nciliatu - Ragusa add., condito i maccheroni con la ricotta).
Bibliografia e sitografia:
Stefano
Melchiore, Poesie siciliane giocose, serie, e morali, Palermo,
1785.
Serafino
Amabile Guastella, L’antico carnevale nella Contea di
Modica, 1877.
Giuseppe
Pitrè, Usi e costumi credenze e pregiudizi del popolo
Siciliano, Volume I, Palermo, 1889.
Studi
glottologici italiani, Volume 8, 1899.
Ove
il cedro fiorisce. Libro Sussidiario per la cultura
regionale. Almanacco illustrato, per la 3ª, 4ª e 5ª classe elementare della
Sicilia, in conformità dei Programmi Ufficiali del 1 ottobre 1923 e approvato
definitivamente dal Ministero della P.I. Remo Sandron Editore – Libraio della
Real Casa - 1925.
Arturo
Lancellotti, “Feste tradizionali”, Società Editrice
Libraria, 1951.
Gerhard Rohlfs , redattore della casa Bayer , Akad d. Wiss., Monaco di Baviera, 1977.
Giuseppe
Navarra, Termini com’era GASM, 352 pp. 2000”.
Giuseppe
Longo 2012, Giuseppe Navarra e il Carnevale di Termini
Imerese, Cefalunews, 20 settembre.
Giuseppe
Longo 2016, La “Nanna” partoriente del Carnevale di Palermo…
ed altre cose, Cefalunews, 17 novembre.
Giuseppe
Longo 2017, Le maschere carnascialesche di Termini Imerese,
antico retaggio del Carnevale di Palermo, Cefalunews, 23 aprile.
Giuseppe
Longo 2018, Il binomio Palermo-Termini, tra porte civiche,
manifestazioni carnascialesche e “gustose” leggende metropolitane, Cefalunews,
22 dicembre.
Giuseppe
Longo 2019, La rivincita della “vera” storia del Carnevale
Termitano, Cefalunews, 19 gennaio.
Giuseppe
Longo 2019, Riflessioni sulla festa carnascialesca di
Termini Imerese l’erede indiscussa dell’antico Carnevale di Palermo,
Cefalunews, 4 febbraio.
https://cittametropolitana.pa.it/
http://www.culturasiciliana.it/62-cultura-siciliana/662-pitre-giuseppe
Foto
di copertina: I Magi con i loro abiti tradizionali:
brache, mantello e berretto frigio. Ravenna, Basilica di Sant’Apollinare Nuovo,
ca 600. (da Wikipedia).
Foto
a corredo dell’articolo:
Cannolo siciliano. Ph. dal
Web.
Carnevale di Palermo 1906,
da Arturo Lancellotti, “Feste tradizionali”, Società Editrice Libraria, 1951.
Carnevali di Palermo e
Termini Imerese: da sinistra: Carnevale di Palermo 1906, da Arturo Lancellotti,
“Feste tradizionali; e Carnevale di Termini Imerese, carro dei Nanni (anni ‘30
del XX secolo). Collezione privata.
Maschere in cera
carnevalesche custodite nel Museo Etnografico Siciliano Giuseppe Pitrè,
Palermo.
Cartina geografica
della Sicilia 1925 circa, da “Ove il cedro fiorisce”. Si ringrazia Eduardo
Giunta Fotografo (per la riproduzione illustrativa inserita nel testo).
Giuseppe Longo
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