Cefalunews, 18 agosto 2016
Lo scrittore e letterato
palermitano Enrico Onufrio (1858-1885) attraverso il suo libro “La Conca d’Oro.
Guida pratica di Palermo”, edito nel 1882, pubblicato dai “Fratelli Treves
Editori”, pur non dettagliando la descrizione storico-monumentale della sua
città, riuscì a raccontarne mirabilmente i fasti, arricchendola altresì di
particolari descrittivi, legati agli usi ed alle tradizioni popolari (non
ultimo menzionando la ricorrente manifestazione carnascialesca, un tempo in
auge nel capoluogo siciliano).
Ad un certo punto della
sua opera, l’Onufrio esordisce: «…O viaggiatore fornito di poesia e di
quattrini, amante delle cose belle e delle cose grandi, curioso indagatore
della fisionomia d’un popolo, io ho fatto di tutto per contentarti…».
Ho avuto modo di
imbattermi nella ristampa dell’opera ottocentesca dell’Onufrio (Edizioni e
Ristampe Siciliane S.p.A - Palermo 1976), quasi per caso: durante le mie
ricerche storiche sulla “Società del Carnovale” di Termini Imerese e la
correlazione con l’altra benemerita palermitana “Società del Carnevale” (1).
Infatti, sfogliando la sua
“Conca d’Oro, si apprende che l’autore, nella seconda parte del libro, al
capitolo XII, intitolato “Il Carnevale”, in riferimento al popolare personaggio
carnascialesco di Palermo, U’ “Nannu”, così scriveva e concludeva: «…Trent’anni
fa egli moriva di risate; adesso se ne muore di noia. Povero nannu!». La
curiosa testimonianza di Onufrio, inerente al personaggio carnevalesco del
“Nannu”, pur nella sua essenzialità è di fondamentale importanza, perché
comprova che, sin dal 1852, fu presente a Palermo, la sola maschera del
“Nannu”.
Questa circostanza è
singolare visto che successivamente, l’arzillo vecchietto, durante la cerimonia
di apertura del Carnevale, che si svolgeva lungo il Corso Vittorio Emanuele,
ebbe come alter ego femminile la maschera della “Nanna”. Dal libro di Onufrio
emerge anche un altro particolare inedito: la maschera del “Nannu”, almeno sino
al 1882 veniva totalmente distrutta mediante un complesso cerimoniale che
culminava nel rogo e rinnovata ogni anno.
Il rogo della maschera del
“Nannu”, avvenimento che aveva luogo in pieno centro storico, probabilmente non
era altro che un retaggio di un antico rito pagano. In realtà, dal capitolo
appositamente dedicato al carnevale, si deduce che trenta anni prima (1852),
quando l’autore ancora non era nato, ma poteva averlo appreso dai racconti
paterni, la manifestazione carnascialesca, era in auge. L’usanza di praticare
la popolare sfilata culminava nel rituale rogo del “Nannu”, e si svolgeva ai
“Quattro Cantoni di Vigliena”, ovvero ai “Quattro Canti” dell’ottagono Villena.
Al di là della sua schietta opinione circa l’uso di festeggiare in passato il
Carnevale nel capoluogo, peraltro in una Palermo a quell’epoca oramai inserita
in una realtà molto diversa del “tempo che fu”, ritengo opportuno proporre ai
lettori dei brevi cenni biografici di Enrico Onufrio e il testo integrale del
suddetto capitolo.
CENNI
BIOGRAFICI. Il palermitano Enrico Onufrio, fu giornalista,
scrittore e poeta. Nonostante la sua breve, ma intensa vita (si spense a soli
27 anni a Monte S. Giuliano, oggi comune di Erice in provincia di Trapani),
riuscì a dare prova della sua capacità di scrittore, affermandosi nel campo
letterario, in un contesto intellettuale, quello milanese di allora, dilagante
di movimenti artistici e culturali come, la Scapigliatura, il Verismo e il
Decadentismo. Il giornalista Enrico Onufrio, dopo aver pubblicato svariati
saggi su diversi periodici, in particolar modo sulla “Nuova Antologia”, e
“L’Avvenire” di Sardegna, si trasferì a Milano nel 1877, dove diresse con
l’editore e giornalista Angelo Sommaruga, il periodico “La Farfalla” e l’anno
successivo, militò tra le file garibaldine come corrispondente di guerra nella
campagna dell’Erzegovina.
Dopo la parentesi
milanese, Onufrio ritornò a Palermo, dove nel 1882 conseguì la laurea in
Giurisprudenza e tre anni dopo ottenne la libera docenza in Letteratura
italiana. Ampia fu la sua produzione letteraria, tra le sue principali opere
ricordiamo (2): “Le formule del
bello e dell’arte” (1877), “Barbarie” (1877), “Momenti”, versi (1878), “Metrica
e poesia” (1878), “La spugna d’Apelle” novelle (1882), La conca d’Oro. Guida
pratica di Palermo (1882), “La morte di Francesco Pecora”, “L’adultera del
Cielo”, racconti in «Capitan Fracassa» (1883), “Il sentimento della natura nel
Poliziano” (1884) e “L’ultimo borghese”, Giornale di Sicilia (1885).
“LA
CONCA D’ORO”, CAPITOLO XII. Il capitolo XII del volume di Onufrio, così riporta
testualmente:
«Il carnevale è morto, in Palermo come in tutta Italia, quantunque delle
società di giovanotti spensierati faccian di tutto per agitarne ancora gli
allegri sonagliuzzi, e provocare le sue pazze risate a scadenza fissa. Il
carnevale dunque è diventato un’istituzione come tante altre; e anche qui come
altrove abbiamo una Società del carnevale, che pubblica ogni anno il suo bravo
programma, dove promette un’infinità di veglioni, qualche corso di fiori, delle
feste popolari che riescono fragorosamente noiose, e finalmente la cremazione
del Nannu ai Quattro Cantoni, l’ultimo giorno delle feste, a mezzanotte. Non
parliamo, per carità dei soliti veglioni eleganti; e assai più preferibile una
festa di ballo sulla Neva, con venti gradi sotto zero riuscirebbe certo più
animata e più gaia, Dall’altro canto i veglioni al Politeama non sono certo un
divertimento.
Ivi
il popolino accorre in ran folla, e sente anch’esso il bisogno di appiccicarsi
una maschera al viso e di fare baldoria. Abbondano sempre i soliti spagnuoli,
le solite oche, e i soliti paladini; che sono i costumi che vanno più a sangue
alla nostra plebe: il primo, perché, nonostante i colori non sempre vivaci del
velluto, dà sempre a chi lo indossa una cert’aria di gran signore…. A spasso;
il secondo, quello dell’oca, perché con una gonnella e un tovagliolo è presto
fatto, e incontra quindi le simpatie di coloro che non hanno da spendere cinque
lire dal rigattiere; l’ultimo, quello dei paladini, è molto in voga, perché
quella corazza di cartone inargentata dà un’aria marziale e truculenta,
precisamente come ai pupattoli dei teatrini da marionette. Più sopra ho
accennato alla cremazione del Nannu.
Ma
chi è mai questo Nannu? Come c’entra il nonno col carnevale? Procurerò di
darvene un’idea. Trasportiamoci con la mente ai giorni in cui le feste
carnevalesche stanno per finire. E’ allora che ‘u nannu, poveromo, si trova in
fin di vita. Egli si è già rassegnato all’idea della morte; ha intinto la penna
d’oca nel suo vecchio calamaio di corno, e ha scritto il suo bravo testamento;
indi ha chiamato intorno a sé i suoi nipotini, e questi, come uno sciame di
folletti, hanno inavaso la sua stanza, son saltati sulle sue ginocchia, hanno
frugato le tasche del suo immenso soprabito, si sono afferrati al suo lungo
codino come a un battaglio di campana. E ‘u nannu ha lasciato fare, buono,
sorridente, allegro.
Egli
non ha paura della morte, ma le va incontro come uno stoico dei tempi antichi.
Bisogna vederlo con quel suo faccione di cuor contento, e quei suoi occhietti
brilli, e quella sua pappagorgia che gli pende come un tovagliolo di carne;
egli muore schiattando di salute, mentre enormi ruote di salsiccia arrostiscono
allegramente sul focolare, e chicche e confetti gli piovono a nembi nelle ampie
saccocce, e il biondo vino spumeggia nei calici.
Eppure,
le sue ore sono contate; eppure mentre egli s’apparecchia a crepare
d’indigestione, s’odono gli alti lamenti di coloro che piangono la sua prossima
fine. No, non esagero, Per i vicoletti, per i chiassuoli echeggia come un
funebre schiamazzo: sono urli grotteschi e rauche grida di donnicciole avvinazzate,
che, dinanzi agli usci dei loro tuguri, con le braccia distese e le chiome
scarmigliate, levano alti clamori. – ‘U nannu sta murennum ‘u nannu! – è questo
il grido che esse mandano col lugubre accento di megere incollerite, e si
agitano, si dibattono, strappansi i capelli, bizzarre prefiche [donne che
piangono a pagamento nei funerali, N.d.R.] del carnevale che agonizza.
Poiché
questo nannu che muore pieno di salute e d’allegria, circondato di salsiccia
odorosa e di nipoti birichini, altro non è che il carnevale, vale a dire il
chiasso, la baldoria, il festino a scadenza fissa. Donde sia nata questa figura
di vecchio buontempone, questa grottesca leggenda di uomo che muore a furia di
scorpacciate, non saprei, né il popolo si cura di saperlo. Esso sa che ‘u nannu
è l’allegria; sicché mangia e beve con lui, il vecchio piacevolone, che
biascica le litanie con un rosario di salsiccia, e si asperge la fronte con
l’acqua santa delle cantine.
E
intanto ‘u nannu tira le calze. Il popolo, ubbriaco [sic] e satollo, fa ressa
intorno alla sua bara, e manda in frantumi l’ultimo bicchiere di vino, che
inonda la stanza di rosse lacrime di dolore…. ‘U nannu murìu, ‘u nannu! Povero
vecchio dovranno scorrere dodici mesi perché esso ritorni un’altra volta. I
fanciulli sono più miti nel dare sfogo all’angoscia.
Essi
si contentano di fare, a furia di stracci e di bambagia, un uomo grande al
naturale, coi suoi bravi stivali, e il lungo soprabito, e i guanti, e la
cravatta, e tutto; gli appiccicano al capo la maschera allegra e rubiconda del
nannu, e messolo in una poltrona, lo tengono esposto in una stanza l’ultimo
giorno di carnevale. Povero uomo! Egli passò una notte d’inferno: che colica!
Che dolori! Che strazio! Adesso è morto, e i nipotini gli saltano intorno, e
gli tirano il codino, e gli si pongono a sedere sulle ginocchia, facendogli
mille moine, e accarezzando le sue guance pienotte di cartapesta. Fuori,
intanto, il carnevale agonizza.
I
cortili, i chiassuoli, i vicoletti echeggiano di alti lamenti e di pazze grida.
Muriu ‘u nannu, muriu! E le donnicciole, ballando danze sfrenate, urlano e
imprecano quasi fossero invasate dagli spiriti; e dopo una giornata di orgia
faticosa, la plebe va a letto, ebbra e sonnolenta. Il nonno è morto, e con lui
finisce la baldoria.
Domani
è quaresima. La Società del carnevale si è servita di questa strana e
caratteristica tradizione per affermarla ufficialmente e con pompa solenne. Fa
intervenire il nannu ai veglioni, alle mascherate, a tutte le feste del
carnevale; e infine, l’ultimo giorno, dopo averlo condotto in giro su e giù per
il Corso, a mezzanotte lo fa fermare ai Quattro Cantoni dove ha luogo il rogo
del nannu. Si dà fuoco al carro processionale, che avvampa come una pira, e il
famoso pupattolo si dilegua anch’esso in un nembo di scintille.
Il
popolino urla e schiamazza intorno all’idolo carnevalesco, e la testa del nannu,
che è una bomba bella e buona, scoppia fragorosamente, trasformandosi in una
pioggia di faville d’oro. E’ una funzione che, vista una volta, può divertire;
ma che, ripetendosi tutti gli anni, comincia oramai ad annoiare. Non sentite
che ‘u nannu muriu? Sì, il carnevale è morto, e ogni anno esso si leva dalla
sua fossa stanco e imbronciato, e vi ritorna frettolosamente, come colui a cui
è grato il sonno. Povero vecchio, non andate più a seccarlo. Egli è stufo di
salsiccia, di confetture, di pasticcini, di tutto e di tutti. Trent’anni fa
egli moriva di risate; adesso se ne muore di noia. Povero nannu!».
Nota:
(1)Giuseppe Longo, 2016, Le Società
carnascialesche di Palermo e di Termini Imerese, Cefalunews, 2 febbraio
(2)Rosario La Duca, “Introduzione”, in E. Onufrio, “La Conca d’Oro”, ristampa anastatica dell’edizione del 1882 (Treves, Milano, 1882), Edizioni e Ristampe Siciliane S.p.A., Palermo, 1976.
Foto di copertina: Copertina del libro di Enrico Onufrio: “La Conca d’Oro. Guida pratica di Palermo”, Fratelli Treves Editori 1882, e Andrea Onufrio, Ritratto ad olio del figlio Enrico, (Palermo, Biblioteca Comunale), da Wikipedia.
Giuseppe Longo
L' opuscoletto Barbarie, scritto in replica alle Odi barbare, diede la miccia ad una contesa con il Carducci che andò oltre l'aspetto letterario ed appassionò critici e letterari di tutta italia. Un episodio poco conosciuto e che ho avuto modo di approfondire con documenti di prima mano
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