Cefalunews,
10 aprile 2017
Nel 1799 come nella tradizione più attesa, si festeggiò a Palermo il conosciutissimo e animato evento carnascialesco. All’antica manifestazione, già in auge sin dal XVI sec. parteciparono personaggi mascherati dalle molteplici movenze e dai variegati costumi che tra le note intense della Tubiana, una musica da ballo tradizionale, raggiunsero le principali zone del centro storico. Infatti, a coronamento, dell’articolata festa, al fine di intrattenere le folle assiepate, si svolgevano sia nei popolari quartieri e sia nelle principali piazze, differenziate rappresentazioni folcloristiche. E mentre la festa impazzava, in contemporanea, un coinvolgente corteo, si apriva lungo il principale asse viario cittadino: il Cassaro, l’odierno Corso Vittorio Emanuele.
In realtà, la sfilata dei sontuosi Carri di Carnevale, una sorta di gara tra i nobili: principi, marchesi e duchi, le celebri “carrozzate”, scivolava sfarzosamente, lungo la strada più antica della città, al seguito di diversificate maschere a tema, in un vero tripudio di folla. La festa volgeva al termine l’ultimo giorno di carnevale con l’impiccagione del fantoccio del “Nannu” a Piazza Vigliena, quest’ultima, comunemente chiamata i “Quattro Canti”. Nell’apparato simbolico, la morte del vegliardo (sia per bruciatura oppure per impiccagione, N.d.R.) un evento propiziatorio in retaggio di un antico rito pagano, rappresentava la giustizia sommaria del Carnevale. Così, anche il carnevale del 1799 fu ascritto negli annali festivi palermitani e ricordato come per le altre edizioni, per la sua popolarità, la magnificenza e lo studio coreografico.
Ho rispolverato per
l’occasione un “classico” di Giuseppe Pitrè “La vita in Palermo cento e più
anni fa” estraendo dal Cap. I - Feste sacre e profane, civili e religiose - l’argomento
relativo all’antico carnevale, e con piacere lo propongo ai miei lettori.
Giuseppe
Pitrè “La vita in Palermo cento e più anni fa”. - Feste sacre e profane, civili
e religiose -
…Tra le ridde della
tubiana e le ebbrezze dei ridotti, tra lo scompiglio dei carri e le misurate
movenze del “Mastro di campo”, correva sbrigliato, frenetico, il Carnevale. Un
paio di tamburini, qualche piffero, uno, due uomini che battevan le
castagnette, raccoglievano intorno a loro una folla disordinata di maschere
popolari: re, regine, caprai, pulcinelli, orsi, mastini, inglesi ubbriachi,
dottori e baroni imparruccati, turchi neri come pece, vecchie armate di fusi e
di conocchie. Al ripicchiar degli strumenti i sonatori eccitavano a balli
paesani, a salti mortali, a corse sfrenate ed a smorfie e sdilinquimenti. Con
un arnese formato da una serie di regoli a X mobili di legno una maschera
faceva giungere fino ai secondi piani lumie e fiori ad amiche ed a parenti: era
lu “scalittaru”. Un’altra offriva in un elegante cartoccio confetti e in una
nastrata boccettina sorsate di liquore delizioso: era un azzimato spagnuolo.
Altra maschera si affaticava a guadagnare i gradini d’una scaletta a piuoli,
sostenuta da due compagni: e dopo mille contorcimenti e dinoccolature
stramazzava goffamente per terra: era il “pappiribella”. Quest’accolta di
maschere, guidata dalla infernale orchestra, era appunto la “tubiana”; la quale
per “lazzari”, “mammelucie”, “papere”, “ammucca-baddottuli”, e d’ogni strana
maniera travestimenti accrescevasi all’infinito. Tutto un dramma comico
svolgevasi alla Fieravecchia e in altre piazze: il Castello, parodia del Conte
di Modica “Bernardo Cabrera”, che diede la scalata allo Steri (oggi Palazzo
Tribunali in piazza Marina) per impadronirsi (gennaio 1412), vecchio
libidinoso, della giovane e bella Regina Bianca di Navarra, vedova di
Ferdinando: era il “Mastro di campo”2. Mentre siffatti spettacoli
animavano i quartieri dell’Albergaria e della Loggia, di Siracaldi e della
Kalsa, sontuosi carri salivano e scendevano pel Cassaro e per la Strada Nuova,
gremiti di altre maschere raffiguranti scene mitologiche, storiche od anche
fantastiche. Il “Trionfo d’amore”, secondo Petrarca, meritò il plauso
dell’unico giornale del tempo. Cosa non mai vista le carrozzate del Principe di
Pietraperzia e del Principe di Paternò, del Principe di Gangi Valguarnera e del
Marchese Spaccaforno Statella, del Duca di Caccamo Amato e del Duca di
Sperlinga Oneto. Precedute da strumentisti a piedi e da soldati a cavallo,
lanciavano alle aristocratiche spettatrici sui terrazzini (balconi) scatolette
ed alberelli, ed a larghe mani sulla folla plaudente confetti gessati3.
Appena principiato il secolo XIX, nel Martedì grasso del 1802, anche Ferdinando
volle prender parte ad una di cotali carrozzate spargendo confetti di
eccellente fattura, mentre gli altri che lo accompagnavano ne lanciavano finti4.
Altre maschere di altra levatura popolavano le case private con le eterne
distinzioni di classi; ché, tra le nobili non erano ammesse le civili, e queste
non avrebbero osato invitar quelle.
2
PITRÈ, Usi e costumi, v. Io, pag. 26-27.
3
Varietà romanzesca, p. 19. – Villabianca, Diario, in Bibliot., v. XXVI, pp. 100-1 XXVI. 8–12; Diario ined., a. 1787, pag. 58; A. 1793, pag. 59; A. 1800, pag. 399.
4
CREUZÉ DE LESSER, Viaggi in Italia e in Sicilia, p. 107. A Parigi, MDCCCVI
Solo per eccezione il
Principe di Paternò Moncada, che nella sua sconfinata grandezza aveva slanci
fuori la propria cerchia, ammise alcune volte maschere del medio ceto nel suo
palazzo; come la sua villa (quella che era intesa «Flora di Caltanissetta») non
isdegnò di aprire, oltre che ad esso, al ceto dei plebei: il che ci fa
ricordare del Vicerè Colonna di Stigliano, che migliaia di maschere d’ogni
classe accolse nel Regio Palazzo e tutte volle servite da camerieri e da
credenzieri vestiti da pulcinelli5. Anche pel Carnevale il secolo si chiudeva
in forma eccezionalmente sontuosa. Erano i Sovrani in Palermo, e la eccezionale
sontuosità partiva appunto da loro. La sera del 18 febbraio a nome del Re il
Capitan Giustiziere Principe di Fitalia invitava la più alta Nobiltà della
Capitale ad una festa da ballo al R. Palazzo. Nell’invito si permetteva
«qualunque sorte di maschera di carattere, dominò, e bautta», sotto la quale
sarebbe stato «lecito portare dei fiacchi», o “giamberghe”, aggiungeva uno di
coloro che ricevettero la partecipazione.
La festa doveva
principiare alle 2, ma poté esser popolata solo alle 4 dopo mezzanotte, tale fu
la difficoltà degli invitati di farsi strada pel piano del Palazzo. Che
eleganza di maschere! Che splendore di costumi! Che varietà di figure, l’una
più bella, più curiosa dell’altra! L’occhio si confonde nel seguirne le mosse e
gli atteggiamenti solenni, irrequieti, civettuoli. Questa che fa da “pacchiana”
di Ischia è la Contessa di Belforte, Isabella Paternò, moglie del Marchesino di
Villabianca. Con che grazia regge ella il suo cestino di frutta… della
Martorana!6 E con che profondo, dignitoso inchino ne presenta al Re!… E le son
compagne altre “pacchiane” di Napoli: la Principessa di S. Giuseppe, Barlotta;
la Principessa di Iaci, Reggio; la Principessa di Valdina, Papè; la Principessa
di Sciara, Rosalia Notarbartolo. Altre, attempatelle, sono Costanza Pilo,
5
VILLABIANCA, Diario, in Bibl., v. XXVI, pp. 8, 12, 121-122.6 Dolci composti di
pasta di mandorle, che prendono ancora nome dal monastero, dove particolarmente
si manipolavano.
terza moglie di Benedetto
di Villabianca, ed Annetta Vanni, parente di lei. Ecco i quattro Elementi della
Natura: “l’Aria” è la Duchessa di Ciminna, Grifeo; “l’Acqua”, la Marchesa di
S.a Croce, Celestre; la “Terra”, la Marchesa delle Favare, Ugo; il “Fuoco”, la
Principessa di Castelforte, Mazza. Ma non procedono sole; tien loro compagnia
“Eolo”, il cav. D. Antonio Chacon; “Nettuno”, il Marchese Salines Chacon;
“Titano”, il marito della Celestre; “Vulcano”, il Principe di Cattolica,
Giuseppe Bonanno; il “Ciclope” Sterope, D. Andrea Reggio, ed altri ed altri
ancora. Con i quattro elementi della Natura sono anche le Quattro Stagioni
dell’anno e tutte le deità dell’Olimpo pagano. Dove più fervon le danze piovono
cartellini in onore quando di questa e quando di quella deità. Prendiamone uno:
è in versi francesi in onore di una vaghissima mascherina di “Cerere”, che non
si riesce a indovinare, ed alla quale tengon dietro un Sileno, un Pane e
pastori e pastorelle che intonano note d’amore:
Cerés ha appena lasciato la sua ridente campagna,
Arriva in mezzo alle sue bellissime compagne;
La dea dei fiori, e quella dei giardini,
Ella viene per prendere parte a queste splendide Feste.
Sileno, così come Pan, e pastori e pastorelle,
Hanno abbandonato i loro boschi, le loro rustiche casette:
Cantiamo tutti insieme, con slancio d'amore 7 .
A periodici ridotti
carnevaleschi si aprivano sempre i teatri: e poche delle persone che il
potessero vi mancavano. La varietà dei travestimenti non era da meno dello
sfoggio degli abiti d’entrambi i sessi. I balli si succedevano ai balli, non
turbati mai da poveri mortali, che con la origine modesta ne tentassero le
sublimità inaccessibili. Quei ridotti si ripetevano a brevi intervalli, e se ne
contarono fino a una dozzina in una sola stagione. Molto prima del
7 VILLABIANCA, Giornale ined., a. 1800, pp. 100-1 94-100, 151-6
tramontare del secolo il
costante buon successo di questi divertimenti persuase certo Cristoforo Di
Maggio a costruire nel piano della Marina, rimpetto la Casa Calderone (una
volta Castelluzzo, ora Fatta), una grande baracca di tavole solo per balli e
spettacoli del tutto carnevaleschi. Era un teatro con ampia platea, con posto
per due orchestre, ottantaquattro comodi palchi e logge in due ordini, parati
con velluto cremisi, specchi e fiorami d’argento, a spese di ciascuno dei
signori che s’erano impegnati per proprio conto. Vi si tennero da quindici tra
veglioni e giuochi cavallereschi, ed una specie di circo equestre, con
campeggiamenti di dame accorsevi fin dentro la platea con quattro carri tirati
da mule bianche e assedî e assalti di torri tra cristiani e turchi. I
forestieri «non poterono fare a meno di confessare che la veduta di tal ridotto
fu sorprendente, a segno che in tutto il mondo non può darsi l’eguale». Lo
afferma il Villabianca, che non uscì mai dalla Sicilia, e non abbiam modo di
controllare i giudizî ch’egli raccolse dagli stranieri residenti allora a
Palermo. L’intervento di persone non titolate, consentito dalle Autorità e
dalla natura dello spettacolo, allontanava qualche anno la vera e genuina
Nobiltà; ma i veglioni si mantennero nel costante favore del pubblico, recando
non lieve vantaggio alla cassa del Comune, che pur ne destinava gl’introiti
alla Villa Giulia8. Il Santa Cecilia godè anche per questo speciale rinomanza,
e non fu persona di riguardo che non ammirasse maschere e danze elette, non
indegne della presenza di Vicerè e di grandi dignitarî. Ma così al Santa Cecilia
come al Santa Caterina la sera del Martedì grasso era una gazzarra indiavolata
di strumenti da scherno per l’accompagnamento tradizionale del canto e della
recita degli artisti. Secondo gli umori del Vicerè e le inclinazioni
spenderecce o parsimoniose di Capitani Giustizieri abolito ripreso, il giuoco
del
8
Diario, in Bibl., v. 19, pag. 198-99; v. 18, pag. 244; v. 26, pag. 157; v. 27, pagg. 243-44.
toro trionfava nel
classico piano della Marina, suscitando indimenticabili emozioni in tutta la
cittadinanza9. Più clamorosa ancora, anzi vero baccanale, l’impiccagione del
“Nannu” nella Piazza Vigliena: giustizia sommaria del Carnevale, personificato
in un vecchio stecchito, che si menava al supplizio col corteo di popolani
camuffati da Bianchi: altra parodia delle esecuzioni criminali con finto
corrotto e con nenie, che volevan ritrarre le reputatrici o prefiche10. Scenate
funebri simili, ma con particolari più strani, si perpetravano prima, a mezza
Quaresima, nella Piazza di Ballarò segandosi il fantoccio di una megera
mostruosa, fetida. Era l’immagine della magra, uggiosa, insopportabile
Quaresima, tiranna impositrice di sacrifizi corporali, motteggiata in satire,
indovinelli, giuochi di parole, e seguita, vedi contrasto! da una fioritura di
devozioni e di spettacoli religiosi vuoi pubblici, vuoi privati11 …
9
Diario ined., a. 1793, p. 59 e così negli anni 1795 e 1796.
10
Vedi in questo volume il cap. sulla Giustizia; e nel precedente il cap. XXIII.
11
PITRÈ, Usi e costumi, v. Io, pag. 98 e 107.
Foto di copertina: Panorama di Palermo 1860.
Bibliografia e sitografia:
Giuseppe
Longo 2016, “Il Carnevale di Palermo: una storia lunga
almeno cinquecento anni”. Cefalunews, 22 giugno.
Giuseppe
Longo 2016, “Il Carnevale di Termini Imerese: un’antica
eredità venuta da Palermo?”, Cefalunews, 6 novembre.
Giuseppe
Longo 2017, “Il
Carnevale di Termini Imerese non è il più antico di Sicilia”. Cefalunews, 6
marzo.
Giuseppe Longo
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